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Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi 2010-01-20

Obama, dura sconfitta in Massachusetts

a rischio il passaggio della riforma sanitaria al Congresso

Un repubblicano nel seggio dei Kennedy

Scott Brown va in Senato al posto del 'vecchio leone' Ted. Critiche alla Casa Bianca dallo staff di Martha Coakley

http://www.whitehouse.gov/

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Dalessandro Giacomo

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Internet, l'informatore, ll Giornalista, la stampa, la TV, la Radio, devono innanzi tutto informare correttamente sul Pensiero dell'Intervistato, Avvenimento, Fatto, pena la decadenza dal Diritto e Libertà di Testimoniare.. Poi si deve esprimere separatamente e distintamente il proprio personale giudizio..

 

Il Mio Pensiero:

 

Dal Sito Internet del CORRIERE della SERA 2010-01-20 h 17,55

per l'articolo completo vai al sito Internet http://www.corriere.it

Sondaggio: Un anno di presidenza Obama. Giudicate il suo bilancio complessivamente positivo?

Sì 61.9%

No 38.1%

Numero votanti: 2528

 

AVVENIRE

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http://www.avvenire.it

2010-01-20

 

20 Gennaio 2010

MASSACHUSETTS

Voto in Usa, democratici sconfitti

Per Obama riforme a rischio

Grave disfatta per i democratici del presidente americano Barack Obama che hanno perso il seggio di senatore del Masshachusetts che fu di Ted Kennedy. Alle elezioni ha vinto infatti il repubblicano Scott Brown con il 52% dei voti, contro la democratica Martha Coakley con il 47%, secondo dati relativi al 90% degli scrutini.

Con la sconfitta del Massachusetts, i democratici si ritrovano con soltanto 59 voti su 100 al Senato, al di sotto della soglia di 60 seggi necessaria per fermare l'ostruzionismo repubblicano e portare avanti le riforme, in primo luogo quella per la sanità.

Erano 30 anni che in Massachusetts non veniva eletto un repubblicano. Ted Kennedy, che è morto l'anno scorso, era uno dei più decisi sostenitori della riforma sanitaria, che definiva "la causa della mia vita". Il voto appare in parte anche come un'indicazione di un calo dei consensi verso Obama, che si è insediato alla presidenza americana esattamente un anno fa.

 

 

CORRIERE della SERA

per l'articolo completo vai al sito Internet

http://www.corriere.it

2010-01-21

a rischio il passaggio della riforma sanitaria al Congresso

Obama, dura sconfitta in Massachusetts

Un repubblicano nel seggio dei Kennedy

Scott Brown va in Senato al posto del 'vecchio leone' Ted. Critiche alla Casa Bianca dallo staff di Martha Coakley

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NOTIZIE CORRELATE

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Il repubblicano "da copertina" in corsa per il seggio di Ted Kennedy (4 dicembre 2009)

Martha Coakley (Ap)

Martha Coakley (Ap)

WASHINGTON - Il repubblicano Scott Brown è il nuovo senatore del Massachusetts: ha battuto la rivale democratica Martha Coakley con il 52%, ereditando il seggio che per quasi 60 anni era stato monopolio della famiglia Kennedy, ultimo il "vecchio leone" Ted, morto ad agosto. Una sconfitta bruciante per Barack Obama, che si era impegnato in prima persona in favore della Coakley. Il presidente ha perso così la maggioranza qualificata di 60 voti al Senato, che gli consentiva di evitare qualsiasi forma di ostruzionismo da parte dei repubblicani: ora potrebbe complicarsi la strada verso l’approvazione della riforma sanitaria che "resta comunque una priorità" come ha ribadito Barack Obama, ma in futuro bisognerà "porre maggiore attenzione sulla riforma del sistema di regolamentazione finanziaria" dal momento che il presidente degli Stati Uniti non è soddisfatto "per la lentezza dei progressi".

TERZA SCONFITTA - Il presidente ha riconosciuto la sconfitta, telefonando a Brown per congratularsi. Obama ha giudicato che gli stessi umori che lo hanno portato alla Casa Bianca nel 2008 hanno trainato il repubblicano alla vittoria. Parlando con la Abc ha detto che "la stessa cosa che ha spinto me ha spinto anche Brown": oggi come allora "la gente è arrabbiata e frustrata. Non solo per quello che è successo l'anno scorso o due anni fa, ma per quel che è successo negli ultimi otto anni".

Anche la Coakley, data per sicura vincitrice fino a poche settimane fa, ha chiamato il vincitore. "Ho il cuore infranto dai risultati e so che voi provate la stessa cosa - ha detto ai suoi sostenitori - Domani mattina ci alzeremo e riprenderemo la battaglia". Per i repubblicani è il 41° senatore, per i democratici invece è la terza batosta consecutiva dopo New Jersey e Virginia. Un fatto da non sottovalutare, come sottolinea Celinda Lake, esperta in sondaggi della campagna della Coakley: "Come partito dobbiamo capire cosa fare prima che questa ondata arrivi alle elezioni di metà mandato a novembre". La Lake ha attaccato duramente la Casa Bianca per aver sottostimato la rabbia degli elettori del Massachusetts e per l'incapacità di affrontare la crisi che, a suo parere, ha attirato sui democratici la rabbia degli elettori indipendenti preoccupati per lo stato dell'economia: "Se Scott Brown vince è perché è diventato il candidato del cambiamento. Gli elettori votano per il cambiamento come nel 2008, ma lo vogliono vedere. E adesso pensano che Washington abbia fatto la politica di Wall Street, non quella di Main Street". Lo stratega della Casa Bianca David Axelrod ha risposto indirettamente alle accuse dello staff della Coakley: "La Casa Bianca ha fatto tutto il possibile. Se ci avessero interpellato prima, avremmo risposto prima".

Un Barack Obama sconfitto, dal blog

Un Barack Obama sconfitto, dal blog

GLI INDIPENDENTI - "Cercherò di essere un successore degno di Ted Kennedy - ha detto Scott Brown ai suoi sostenitori, che lo hanno accolto al grido di "41! 41!" -. Stanotte la voce indipendente del Massachusetts ha parlato". Il neo senatore, che in campagna elettorale ha fatto leva sulla rabbia dei cittadini per le conseguenze della crisi, ha detto di essere pronto ad andare a Washington al più presto. Il Massachusetts conta oltre quattro milioni di elettori iscritti e i democratici sono più del doppio dei repubblicani. Tuttavia, secondo gli esperti, Brown sarebbe riuscito a conquistare il voto degli indipendenti, e questo avrebbe fatto la differenza. Per il presidente del Comitato nazionale del Partito repubblicano, Michael Steel, si tratta di una vittoria storica: "Scott Brown ha battuto Martha Coakley nel cuore di un feudo del Partito democratico e diventa il primo senatore repubblicano proveniente dal Massachusetts dopo più di 30 anni. I democratici sono ormai ufficialmente avvertiti".

Redazione online

20 gennaio 2010(ultima modifica: 21 gennaio 2010)

 

 

 

 

 

2010-01-20

IL PRIMO BILANCIO

Obama, un anno dopo

Ricostruita l'immagine degli Usa, ora serve nuova determinazione

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Lo speciale del Corriere sulle elezioni Usa del 2009

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Il sito della Casa Bianca

I n casa ha evitato l’apocalisse finanziaria, ma le catastrofi sventate non sono facili da comunicare, rendono poco in termini politici: anziché sollevata, l’America è demoralizzata dalla disoccupazione record e spaventata dall’esplosione del debito pubblico. Nel mondo ha ripristinato l’immagine degli Stati Uniti come potenza costruttiva e responsabile che cerca il dialogo con tutti, nemici compresi, e che rispetta i diritti umani. Ma, anche qui, i riconoscimenti sono venuti più dall’estero che da un’opinione pubblica americana che percepisce come uno smacco Israele che respinge gli inviti a seguire una linea più conciliante o l’Iran di Ahmadinejad che rifiuta la mano tesa della Casa Bianca. A un anno dalla mattina gelida e scintillante della cerimonia di insediamento davanti al Campidoglio di Washington, Barack Obama può legittimamente sostenere di aver colto risultati importanti, di aver governato con equilibrio e competenza. E, di certo, si è guadagnato il rispetto del mondo con molti gesti come l’apertura al dialogo col mondo islamico nel discorso all’università del Cairo, ma anche avendo il coraggio di rivendicare il diritto-dovere degli Usa di impegnarsi in "guerre giuste", proprio nel momento in cui, ad Oslo, riceveva il premio Nobel per la Pace.

Barack Obama

Eppure negli Stati Uniti la sua popolarità— "stellare" quando prese le redini del Paese e anche dopo, fino all’inizio dell’estate — da sei mesi è in caduta libera. Obama non ha avuto il coraggio di battere i pugni sul tavolo, di imporsi sulla Babele del Congresso ( The Economist); dopo aver gettato il cuore oltre l’ostacolo col suo "yes we can", ha scoperto i limiti dei poteri presidenziali ( Financial Times); ha commesso il madornale errore di puntare tutto su una riforma sanitaria che la gente non capisce e non considera prioritaria, ora che il Paese è devastato dalla crisi (giudizio dell’autorevole analista indipendente Charlie Cook). Sulle cause del cambiamento di umori nei confronti del primo presidente nero della storia americana (indice di gradimento sceso sotto quota 50 rispetto al 71% dei giorni dell’insediamento) sono stati scritti fiumi d’inchiostro. I giudizi sul primo anno di Obama e sull’improvviso timore dei democratici di perdere le elezioni di "mid-term", sono i più diversi, ma almeno tre punti emergono con chiarezza: 1) la crisi economica, che durante la campagna elettorale mise le ali al leader democratico (col repubblicano McCain affondato dalla sua immagine di erede politico degli errori di Bush), adesso gioca contro il presidente. All’inizio del mandato il suo capo di gabinetto, Rahm Emanuel, affermò che per l’America era venuto il momento delle riforme radicali, visto che "non si può sprecare l’occasione offerta da una crisi così profonda".

I fatti gli hanno dato torto: un popolo frastornato e impaurito si sta dimostrando anche meno solidale verso i deboli. Questo perché l’impoverimento è generale, non riguarda solo i diseredati senza lavoro e senza assistenza medica: disoccupati, semioccupati e occupati che comunque rimangono sotto la soglia di povertà sono poco meno di un quinto della popolazione. E anche la generazione dei "baby boomers" — un tempo "affluente", ottimista e riformatrice — ha cambiato atteggiamento: è incupita da una crisi che, tra crollo del mercato immobiliare e perdita di valore del risparmio previdenziale, fa svanire la prospettive di una vecchiaia agiata. 2) I conservatori, ripiegati su sé stessi e senza leader dopo la sconfitta di fine 2008, in pochi mesi non solo si sono rialzati, ma hanno cominciato ad assediare Obama sfruttando due delle chiavi della sua vittoria: la promessa di governare la crisi in uno spirito di unità nazionale e l’uso, per comunicare, dei moderni strumenti della democrazia digitale. Anche la destra ha imparato a usare Internet, Twitter, YouTube. Così i gruppi antitasse dei "Tea Party", che ad agosto sembravano un fuoco di paglia, sono divenuti un movimento nazionale indipendente al quale i sondaggi attribuiscono il 40 per cento dei consensi potenziali. Al tempo stesso i repubblicani — ancora senza leader ma con vecchie volpi come lo stratega di Bush, Karl Rove, al lavoro dietro le quinte — hanno capito che la strategia "bipartisan" di Obama offriva loro un’opportunità insperata: bastava rifiutare la sua mano tesa per farla fallire. Così Obama si è ritrovato a dialogare con un muro. 3) Il presidente poteva ancora inchiodarli dimostrando che i repubblicani stanno boicottando un’efficace azione di risanamento. E che, nel mondo, è lui che sfida i terroristi nelle aree calde— Afghanistan e Pakistan— dopo le distrazioni irachene di Bush. Ma Obama, grande oratore in una campagna elettorale ricca di slogan seducenti, si è rivelato un comunicatore assai meno efficace da uomo di governo.

Certo, è difficile interagire con cittadini distratti, che si informano in modo sempre più frammentario: come spiegare il cambiamento di strategia in Medio Oriente e in Asia Centrale se, come mostrano i sondaggi, nella mente di buona parte degli americani il conflitto iracheno e quello afghano sono sovrapposti in una poltiglia indistinguibile di orrende immagini di attentati? Vale anche per l’economia: difficile sottrarsi all’accusa di spendere troppi soldi pubblici senza ottenere grossi risultati quando molti non distinguono il maxipacchetto degli stimoli fiscali (sostegni all’economia e al lavoro) dal Tarp, il fondo utilizzato per salvare le banche. Come uscirne? Molti analisti suggeriscono al presidente di chiudere prima possibile la partita della sanità, dedicandosi anima e corpo all’emergenza economica, senza farsi distrarre da un’altra missione — l’impegno contro il "global warming" — che per la maggioranza degli americani non è un problema cruciale, nell’attuale congiuntura. Anche se lo farà (perdendo una sinistra "liberal" che già ostenta la sua delusione) non è detto che riesca a recuperare: la gestione di un lento declino — economico come del ruolo internazionale degli Usa — non è esattamente quello che Obama aveva promesso agli elettori nella sua campagna elettorale scintillante.

Per farcela dovrà spingere gli americani a guardare le cose col suo stesso pragmatismo e convincerli che il Paese non è alla deriva, battendo i pugni sul tavolo e imponendo le sue scelte a un Congresso privo di disciplina. E, all’estero, dovrà alzare il profilo delle sue azioni, oltre a quello dei messaggi: lo sta già facendo inviando 30 mila uomini in più in Afghanistan, autorizzando un maggior numero di attacchi dal cielo contro i covi di Al Qaeda e cercando di impegnare la Cina in un confronto bilaterale più serrato (anche se Pechino ha fin qui risposto con una certa freddezza). Per Obama quella di mostrarsi molto più determinato è l’unica possibilità, ma è anche un sentiero stretto: da una parte ci sono i dubbi dei conservatori che lo vedono come un "community organizer" che fatica a diventare "commander-in-chief". Dall’altro le difficoltà oggettive di un presidente nero forte del voto avuto da un’ampia maggioranza dell’elettorato, ma anche consapevole del permanere di aree di pregiudizio razziale, che anche per questo fin qui ha sempre cercato soluzioni ecumeniche.

Massimo Gaggi

19 gennaio 2010

 

 

 

 

LA FAMIGLIA

Un maschio beta multirazziale

Moglie in capo e figlie secchione

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Lo speciale del Corriere sulle elezioni Usa del 2009

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Il sito della Casa Bianca

"Ma Obama non doveva cambiare tutto? Ma ti sembra che sia cambiato qualcosa?". Se è perplesso anche il nipotino teenager, ispanico e gay di Ugly Betty (serie tv comico-surreale popolarissima, anche da noi), vuol proprio dire che The One non cammina più sulle acque. Neanche nella percezione collettiva dell’America che lo ha amato e voluto: giovani, minoranze, gay, liberal. Il disincanto si vede. Dopo la notte elettorale di lacrime, dopo l’inaugurazione con due milioni di americani semiassiderati ma felici di fare la storia; dopo l’orto organico di Michelle, dopo Barack a vedere il basket con giubbotto e birra; dopo gli annunci e le speranze, la mania collettiva per l’intera famiglia (comprensiva di culto infantile per Malia e Sasha, per tacer del cane), dopo l’Obamamania mondiale, dopo un premio Nobel controverso, è arrivato un autunno di scontentezza. Economica, politica, ed emotiva: per tanti motivi, per la sovraesposizione di presidente e First Family inversamente proporzionale ai segnali forti che avrebbero dovuto cominciare a rendere diversa la vita degli americani. Che al momento non si vedono.

La first family al completo

Gli obamiani — più qualche politologo — mettono le mani avanti. Dicono: nel suo primo anno sono state approvate più leggi importanti che in qualunque altro mandato, dopo Lyndon Johnson. Proiettano: Obama è un presidente alla Ronald Reagan, affascina, ispira, ha degli obiettivi piuttosto che un’agenda minuziosa; li annuncia, poi altri negoziano le modalità. Quindi ci vuole tempo. Obama però ha già segnato il nostro tempo. Tanto da far pensare che — sperabilmente — indietro non si tornerà. Perché tante cose sono cambiate. Prima e ovvia: due anni fa sembrava impossibile l’elezione di un presidente nero. E se non sono ancora cambiate le condizioni degli afroamericani, si rafforza il loro senso di sé. Perfino la gaffe del leader democratico al Senato, Harry Reid, che aveva detto "ce la può fare, ha la pelle chiara e non parla come un negro", rivelata nel bestseller Game Change, non ha innervosito. Secondo, sempre ovvio, è cambiata l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Europei, africani, e tanti nei Paesi islamici hanno creduto al suo mantra di cambiamento e speranza. Il mantra è quasi solo un ricordo, ma l’icona-Obama conserva la sua aura e fa vendere gadgets, forse più all’estero che in patria; il presidente plurietnico cresciuto in mezzo mondo non susciterà mai odio diffuso come George W. Bush, di sicuro. Terzo, e incisivo sui costumi: l’auto-ostensione di Obama e dei suoi cari sta cambiando l’idea di famiglia tradizionale. La sua lo è, bella, solida, citazionista delle allegre famiglie da telefilm. Ma è paritaria e, come la sua politica, è fondata sulla mediazione pragmatica: Michelle, manager potente, si è riciclata come mamma-in-capo, parla ai ragazzi svantaggiati, rompe l’anima agli americani perché mangino sano. Si è messa golfini modello sciuretta e giro spalle taglia quarterback, e non è stata stucchevole. "Trasforma lagne materne tipo "mangia la verdura" o "esci a fare moto" in campagne politiche", dicono di lei.

A suo modo, ha fatto politica razziale pure vestendo elegante e posando per Vogue. E nelle foto ufficiali dei vertici: la dama più prestigiosa, per la prima volta nella storia, era la più nera. E anche questo, un anno dopo, sembra scontato. Le bambine sono carine ma le fanno studiare come matte. Barack e Michelle fanno gli innamorati, spesso cenano al ristorante bevendo Martini; lui non la tratta come una mogliettina, piuttosto come una partner-consigliera. Quarto, questione aperta. Obama ha cambiato il modello leaderistico all-american. Non più un omone bianco forzatamente tosto e rumoroso, alla Bush-Clinton. Un maschio beta multirazziale, attento nel trattare, geniale nel proporsi. Un intellettuale con obiettivi (abbastanza) chiari; ma parecchio articolato, anzi complesso; uno che ha chiamato alla Casa Bianca studiosi come Cass Sunstein, sostenitore del "paternalismo libertario", della necessità di "aiutare le persone irrazionali (gli americani? ndr) che non perseguono i propri interessi a prendere decisioni nel loro interesse e nell’interesse pubblico". A George W. avrebbero dovuto spiegare il concetto quindici volte, e lui avrebbe concluso che era roba comunista, probabile. Probabile, e con un problema. Obama ha vinto perché era/è diventato una star. Ma a differenza di F. D. Roosevelt, di Kennedy, di Johnson, non è appoggiato da un movimento. Le maree obamiane che si organizzavano online si sono sciolte, e spesso sono deluse dal divo mediatore. Sintesi della commentatrice Maureen Dowd: "Obama vede sé stesso come un tale cambiamento epocale da poter essere cauto su altri cambiamenti sociali". Dowd e altri lo vorrebbero più deciso, pronto a creare movimenti per sostenere le sue cause. Senza timori: "Anche la sua elezione sembrava inconcepibile. Ma quando una cosa è fatta, neanche ti ricordi perché ci si agitava tanto". Ora, si vedrà.

Maria Laura Rodotà

19 gennaio 2010

 

 

 

 

Verso il Pacifico - I viaggi in Oriente

Prove (obbligate) di G2 con la Cina

L’Asia sarà fondamentale per consentire agli Stati Uniti di uscire dal labirinto politico, finanziario ed economico che Barack Obama ha ereditato

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Lo speciale del Corriere sulle elezioni Usa del 2009

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Il sito della Casa Bianca

Barack Obama percorre uno dei corridoi della Casa Bianca.

Si riaffaccia in questi mesi il vecchio quesito se il Pacifico stia diventando per gli Stati Uniti più importante rispetto all’Europa. In effetti, l’area del Pacifico è uno snodo cruciale per l’America. Ancor più da quando la crisi finanziaria ha messo ancor più in evidenza il ruolo della Cina, da quando Obama ha compiuto uno storico viaggio in Cina, Giappone, Corea del Sud, Singapore e da quando ha negoziato direttamente con Pechino alla conferenza sul clima di Copenaghen. L’Europa segue con apprensione questo riposizionamento non solo sotto il profilo valutario (rapporto dollaro/ yuan ed euro/yuan). Teme infatti un’inversione di marcia strategica degli Stati Uniti a suo danno. Ha sperimentato a Copenaghen il dialogo diretto sino-americano mentre l’Unione Europea aspettava fuori dalla porta. Di conseguenza, si pone tre quesiti: il dialogo con la Cina diventerà esclusivo? Il G20 diventerà un G2? Quali le conseguenze per l’Europa? La risposta è importante perché se è vero che l’Europa è persa senza gli Stati Uniti, è altrettanto vero che questi ne hanno bisogno per la ridefinizione del proprio ruolo mondiale.

L’America rimane la principale potenza del Pacifico dove ha combattuto tre guerre in settant’anni (contro il Giappone, in Corea, in Vietnam). L’Asia sarà fondamentale per consentire agli Stati Uniti di uscire dal labirinto politico, finanziario ed economico che Obama ha ereditato e l’Estremo Oriente un cruciale elemento di stabilità. La Cina detiene le chiavi del debito pubblico e del commercio americano, il Giappone rappresenta il fattore tradizionale di stabilità nella politica estera americana, Singapore il centro culturale della critica all’Occidente. Dieci anni orsono il dialogo sino-americano era concentrato sul commercio, sui diritti umani, sulla non proliferazione delle armi nucleari. A questi temi, oltre alle delicate questioni legate a Taiwan e alla penisola coreana, si sono aggiunti adesso l’economia, la finanza, l’energia, l’ambiente, il clima. Il dialogo sui temi bilaterali è stato sostituito dal dialogo su temi globali. Cosa altro poteva fare Obama nello scorso novembre nel corso del suo viaggio asiatico? Obbligato a cercare l’uscita da un labirinto dove ogni passaggio è scandito da problemi angosciosi, egli doveva dimostrare ad un elettorato sostanzialmente conservatore di saper guidare gli Stati Uniti. Alle prese con i postumi di una grave crisi finanziaria, con due conflitti in atto in Iraq ed in Afghanistan, una disoccupazione del dieci per cento, una lotta politica radicalizzata come mai avvenuto, era chiaro che Obama non sarebbe riuscito a recarsi in Estremo Oriente con una propria articolata dottrina. In queste visite, così come nell’accoglienza successiva al primo ministro indiano Singh, Obama ha cercato di capire come mantenere la centralità americana in un contesto politico mondiale contrassegnato dallo scatto in avanti di tutta l’Asia. Si è recato a Pechino ed a Tokyo sapendo che non vi erano le condizioni perché l’America si presentasse in maniera assertiva. Poteva solo tastare il polso dei suoi interlocutori: capire cosa attendersi da Pechino e salvaguardare l’alleanza con Tokyo.

Sullo sfondo rimane l’interrogativo americano se la Cina acquisirà una preminenza globale che si estenderà dall’economia alla cultura e se la Cina sarà partner od antagonista degli Stati Uniti. Questo dilemma è centrale per gli americani ma anche per gli europei. Fino a poco tempo fa, eravamo convinti in Occidente che il benessere potesse attecchire solo nell’ambito dell’economia di mercato. Nel frattempo abbiamo imparato che il XXI secolo sarà dominato da una competizione costante fra l’economia di mercato, tipica delle democrazie industriali, e l’economia di mercato dei sistemi autoritari. Il dialogo dell’America con l’Asia è nell’interesse dell’Europa. Lo abbiamo visto alla conferenza di Copenaghen: l’Europa aveva una posizione solida ma era isolata, gli Stati Uniti non hanno esercitato una leadership, la Cina ha quindi potuto dimostrare che il sistema multilaterale si blocca senza il suo concorso.

Il presidente degli Stati Uniti cerca quindi un equilibrio con i nuovi centri politici ed economici del mondo, che includa Cina, Giappone, Corea del Sud. Questo non significa che l’America stia facendo delle scelte di campo o persegua l’obiettivo di un G2 sino-americano: non è nell’interesse della sua storia e della sua tradizione politica. Il legame con l’Estremo Oriente può essere invece una nuova occasione di collaborazione fra Stati Uniti ed Europa. Su diversi dei temi citati l’America non può fare a meno dell’Europa: la solidarietà dell’Occidente rimane essenziale perché la Cina non invada ogni campo e rimanga un partner costruttivo. Europa e Stati Uniti sono due pilastri dell’Occidente: hanno bisogno l’uno dell’altro, più di prima.

Antonio Puri Purini

19 gennaio 2010

 

 

 

 

 

 

a rischio il passaggio della riforma sanitaria al Congresso

Obama, dura sconfitta in Massachusetts

Un repubblicano nel seggio dei Kennedy

Scott Brown va in Senato al posto del 'vecchio leone' Ted. Critiche alla Casa Bianca dallo staff di Martha Coakley

NOTIZIE CORRELATE *

Il repubblicano "da copertina" in corsa per il seggio di Ted Kennedy (4 dicembre 2009)

Martha Coakley (Ap)

Martha Coakley (Ap)

WASHINGTON - Il repubblicano Scott Brown è il nuovo senatore del Massachusetts: ha battuto la rivale democratica Martha Coakley con il 52%, ereditando il seggio che per quasi 60 anni era stato monopolio della famiglia Kennedy, ultimo il "vecchio leone" Ted, morto ad agosto. Una sconfitta bruciante per Barack Obama, che si era impegnato in prima persona in favore della Coakley. Il presidente ha perso così la maggioranza qualificata di 60 voti al Senato, che gli consentiva di evitare qualsiasi forma di ostruzionismo da parte dei repubblicani: ora potrebbe complicarsi la strada verso l’approvazione della riforma sanitaria.

TERZA SCONFITTA - Il presidente ha riconosciuto la sconfitta, telefonando a Brown per congratularsi. Anche la Coakley, data per sicura vincitrice fino a poche settimane fa, ha chiamato il vincitore. "Ho il cuore infranto dai risultati e so che voi provate la stessa cosa - ha detto ai suoi sostenitori - Domani mattina ci alzeremo e riprenderemo la battaglia". Per i repubblicani è il 41° senatore, per i democratici invece è la terza batosta consecutiva dopo New Jersey e Virginia. Un fatto da non sottovalutare, come sottolinea Celinda Lake, esperta in sondaggi della campagna della Coakley: "Come partito dobbiamo capire cosa fare prima che questa ondata arrivi alle elezioni di metà mandato a novembre". La Lake ha attaccato duramente la Casa Bianca per aver sottostimato la rabbia degli elettori del Massachusetts e per l'incapacità di affrontare la crisi che, a suo parere, ha attirato sui democratici la rabbia degli elettori indipendenti preoccupati per lo stato dell'economia: "Se Scott Brown vince è perché è diventato il candidato del cambiamento. Gli elettori votano per il cambiamento come nel 2008, ma lo vogliono vedere. E adesso pensano che Washington abbia fatto la politica di Wall Street, non quella di Main Street". Lo stratega della Casa Bianca David Axelrod ha risposto indirettamente alle accuse dello staff della Coakley: "La Casa Bianca ha fatto tutto il possibile. Se ci avessero interpellato prima, avremmo risposto prima".

GLI INDIPENDENTI - "Cercherò di essere un successore degno di Ted Kennedy - ha detto Scott Brown ai suoi sostenitori, che lo hanno accolto al grido di "41! 41!" -. Stanotte la voce indipendente del Massachusetts ha parlato". Il neo senatore, che in campagna elettorale ha fatto leva sulla rabbia dei cittadini per le conseguenze della crisi, ha detto di essere pronto ad andare a Washington al più presto. Il Massachusetts conta oltre quattro milioni di elettori iscritti e i democratici sono più del doppio dei repubblicani. Tuttavia, secondo gli esperti, Brown sarebbe riuscito a conquistare il voto degli indipendenti, e questo avrebbe fatto la differenza. Per il presidente del Comitato nazionale del Partito repubblicano, Michael Steel, si tratta di una vittoria storica: "Scott Brown ha battuto Martha Coakley nel cuore di un feudo del Partito democratico e diventa il primo senatore repubblicano proveniente dal Massachusetts dopo più di 30 anni. I democratici sono ormai ufficialmente avvertiti".

Redazione online

20 gennaio 2010

 

 

 

 

Dopo la sconfitta per il seggio senatoriale in Massachusetts

Per il rilancio serve un Obama 2

Il secondo anno del presidente si annuncia ancora più difficile del primo. La riforma sanitaria è in dubbio

Barack Obama (Ap)

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WASHINGTON - Nessuno immaginava che, a un solo anno dal suo ingresso alla Casa Bianca, ci fosse la necessità di un Obama due. Ma è esattamente quello che il presidente del cambiamento è chiamato a fare: reinventarsi e rimpastare, nei programmi se non negli uomini, il proprio governo. Nel Massachusetts, da sempre lo Stato bastione democratico, Obama ha perso insieme con il seggio di Ted Kennedy e la maggioranza qualificata al Senato anche un referendum su di sé e l’amministrazione. Il suo secondo anno si preannuncia ancora più difficile del primo, il passaggio della riforma sanitaria è in dubbio.

CRISI - Vedere nel fiasco di martedì l’alba di una rivolta popolare contro il suo presunto socialismo, come dicono i neocon, o la resa degli obamiani per le aspettative tradite, come dicono i liberal, è eccessivo. Quel yes we can del 2008 non si è tradotto in dodici mesi di impotenza, e il presidente non è ancora spacciato. Nel 2009 Obama non ha soltanto recuperato l’immagine dell’America all’estero, ha anche incominciato a cambiare l’America in meglio: ha prevenuto un’altra Grande depressione economica, l'ha spinta a confrontarsi sulla sanità e l’ambiente, le ha restituito il rispetto dei diritti umani perduto a Guantanamo, l'ha portata a combattere il terrorismo dove si nasconde, in Afghanistan e Pakistan, non in Iraq.

PROMESSE - Ma è vero che Obama non ha realizzato ciò che aveva promesso, non è stato il secondo Roosevelt, il presidente del Nuovo corso degli anni Trenta, che l’America sognava. L’Obama 2 dovrà darsi priorità diverse, alcune delle quali sottrattegli dai conservatori: il pieno impiego innanzitutto, una severa regolamentazione dei mercati e delle banche, la riduzione del deficit di bilancio dello Stato, i tagli delle tasse, il disimpegno dall’Iraq, la vittoria in Afghanistan e Pakistan, e via di seguito. Dal voto del Massachusetts e altri precedenti, tutti vinti dai repubblicani, è chiaro che al momento per gli elettori americani le riforme più care a Obama, come la sanità e l’ambiente, sono degli optional. Un altro errore del presidente è stato di puntare troppo sul proprio carisma e sulla ricerca del consenso con gli avversari: come si dice al Congresso, ebbe l’audacia di vincere le elezioni ma ha il timore di governare.

DECISIONISTI - L’America ama i decisionisti alla Ronald Reagan, a cui spesso Obama si appella, l’icona dei conservatori che al primo anno di governo licenziò in tronco tutti gli ispettori di volo in sciopero, che definì liberal una parola sporca e seppellì la bipartisanship. Per vincere le sue battaglie, il nuovo Obama dovrà applicare la strategia di Reagan, che spostò il Paese da sinistra a destra: sceglierle con cura, non esitare a ricorrere al divide et impera. Forse l’Obama 2 non impedirà che i democratici perdano anche le elezioni parlamentari di novembre e il controllo del Congresso: essi non hanno saputo reagire agli attacchi repubblicani, né persuadere il pubblico che la colpa dei disastri del 2009 era di George W. Bush. Ma ciò capitò a due altri presidenti, Reagan appunto e il democratico Bill Clinton. E Reagan e Clinton, sconfitti al voto del mid term (metà mandato), si risollevarono e vennero trionfalmente riconfermati in carica due anni dopo. La missione di Obama è più ardua, non fosse altro a causa della crisi economica e finanziaria, e della paura e impazienza degli elettori. Ma Obama potrebbe essere sulla loro stessa strada.

Ennio Caretto

20 gennaio 2010

 

 

 

 

 

 

REPUBBLICA

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2010-01-20

Va al repubblicano Brown (52%) il seggio che fu di Ted Kennedy

Così la maggioranza in Senato non basta a impedire l'ostruzionismo

Obama, sconfitta in Massachusetts

Ora a rischio il percorso delle riforme

Una serie di errori locali, la debolezza della candidata Martha Coakley

Ma anche un pesante avvertimento degli elettori alla politica della Casa Biancadal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

Obama, sconfitta in Massachusetts Ora a rischio il percorso delle riforme

Il neo senatore repubblicano Scott Brown

NEW YORK - L'incubo degli ultimi giorni è diventato realtà: i democratici hanno perso il Massachusetts. La roccaforte progressista del New England ha bocciato il partito di governo, mandando un severo avvertimento a Barack Obama: a un anno esatto dal suo insediamento alla Casa Bianca, il presidente è investito da una grave crisi di consensi. Si votava in un'elezione suppletiva, nel solo Massachusetts, per riempire il seggio di senatore rimasto vacante dopo la morte di Ted Kennedy nell'agosto scorso. Quel seggio, Ted lo aveva occupato per 47 anni consecutivi. Prima di lui era stato del fratello John, l'ex presidente assassinato nel 1963. Ma ieri gli elettori del Massachusetts hanno scelto il candidato repubblicano, Scott Brown, 50 anni, avvocato e senatore nell'assemblea legislativa locale. Brown con un margine netto del 52% contro il 47% ha sconfitto la candidata democratica Martha Coakley, 57 anni, attualmente attorney general (procuratore capo) dello Stato.

La vittoria di Brown non ha solo un impatto simbolico e "storico" evidente, per la caduta del feudo kennedyano. C'è una conseguenza politica immediata che investe gli equilibri parlamentari a Washington. I democratici perdono la maggioranza qualificata di 60 voti su 100 al Senato, indispensabile per poter bloccare l'ostruzionismo dell'opposizione. A questo punto tutta l'agenda legislativa delle riforme di Obama è a rischio. A cominciare dal disegno di legge sull'assistenza sanitaria universale, un progetto su cui il presidente ha puntato moltissimo. Ora le prospettive di un'approvazione rapida della riforma sanitaria sono ridotte. Non a caso ieri pomeriggio a urne ancora aperte, quando si sono diffuse le prime notizie di una possibile vittoria repubblicana nel Massachusetts, a Wall Street sono salite le quotazioni delle compagnie assicurative: uno stop alla riforma è la vittoria per la lobby del capitalismo sanitario privato.

 

Un risultato impensabile ancora poche settimane fa. La vittoria dei democratici nel Massachusetts era considerata così sicura, che i network televisivi nazionali inizialmente avevano disdegnato l'evento e non avevano neppure commissionato i consueti exit poll. E la Coakley non aveva quasi fatto campagna elettorale, lasciando al suo rivale campo libero per una tournée a contatto con i cittadini. Il rischio di un rovescio era apparso all'orizzonte solo nelle due ultime settimane, quando all'improvviso la rimonta di Brown era apparsa nei sondaggi. In extremis, lo stato maggiore democratico aveva tentato di resuscitare l'immagine della Coakley: era scesa in campo con lei tutta la famiglia Kennedy, era andato a Boston per sostenerla Bill Clinton, infine lo stesso Obama vi era apparso in un comizio domenica scorsa. Troppo tardi, non c'è stato modo di invertire la tendenza.

Ma i gravi errori compiuti a livello locale non spiegano tutto. La clamorosa débacle del Massachusetts viene dopo due altre sconfitte emblematiche a novembre, nell'elezione dei governatori di Virginia e New Jersey. Si delinea ormai una tendenza nazionale: gli elettori voltano le spalle al partito democratico. Sul banco degli imputati c'è la politica di Obama. Il suo primo anniversario al governo è segnato da una pesante caduta di consenso del presidente nei sondaggi. Il suo partito si spacca, sulla diagnosi e sulla cura. La componente moderata accusa il presidente di avere applicato politiche troppo stataliste, allontanando l'elettorato indipendente di centro, spaventato dai deficit pubblici e dalla prospettiva di future stangate fiscali. L'ala sinistra del partito democratico al contrario accusa Obama di aver tradito le promesse di cambiamento: troppo indulgente con i banchieri di Wall Street, "falco" in politica estera con l'escalation militare in Afghanistan, secondo questa lettura Obama avrebbe deluso i giovani e le minoranze etniche che furono decisivi nella sua elezione.

Ora tra le due anime del partito democratico si apre un regolamento dei conti. Il tempo stringe: a novembre arrivano le elezioni legislative di mid-term, dove si eleggono tutti i deputati e un terzo del Senato. Obama ha solo dieci mesi per tentare di invertire la tendenza, e scongiurare il ritorno di una maggioranza di destra al Congresso.

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2010-01-20

 

 

il SOLE 24 ORE

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2010-01-20

Usa, in Massachusetts

vince il repubblicano Brown

dal corrispondente Mario Platero

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20 gennaio 2010

Il repubblicano Scott Brown (Reuters)

ANALISI / Ciò che di Obama non piace agli americani (di Mario Margiocco)

La strategia del dopo voto dei democratici: le 4 sfide da non perdere

"Dai nostri archivi"

Piano B per salvare la nuova sanità americana

Ciò che di Obama non piace agli americani

La strategia del dopo voto dei democratici: le 4 sfide da non perdere

Usa, in Massachusets testa a testa tra Democratici e Repubblicani

NEW YORK – Con una volata imprevedibile ed entusiasmante per il suo partito, il repubblicano Scott Brown ha vinto ieri notte in Massachusetts il seggio al Senato che fu di Ted Kennedy. "He Did it", "Ce l'ha fatta" ha titolato a tutta pagina il Boston Herald, con un vago senso di incredulità. "Questo seggio non appartiene a una singola persona o a un singolo partito, l'ho detto in campagna elettorale, è un seggio della gente - ha ripetuto Brown parlando a Boston davanti ai suoi sostenitori entusiasti- Andrò a Washington subito, rappresentando il popolo…lo stato indipendente del Massachusetts ha parlato: sarà bene che se ne tenga conto". Se ne terrà conto eccome. Anche perché quella di Brown è stata una vittoria netta in una roccaforte democratica che vanta una maggioranza di tre a uno: questo senatore statale semisconosciuto, che ha segnato nella notte un'altra pagina di storia, ha raccolto il 52% delle preferenze contro il 47% di Martha Coakley, il candidato democratico, il procuratore federale dello stato, appoggiata fino all'ultimo da Barack Obama.

E il Presidente ne esce con le ossa rotte: queste elezioni erano diventate un vero e proprio referendum su di lui e sul primo anniversario del suo insediamento alla Casa Bianca che si festeggia proprio oggi, 20 gennaio. E mai anniversario di insediamento alla Presidenza è stato più amaro. L'impatto, anche sul piano simbolico, è devastante su più fronti.

La riforma sanitaria. C'è intanto per i democratici la perdita della maggioranza blindata di sessanta seggi al Senato. E questo mette in crisi l'agenda politica della Casa Bianca, ma con una conseguenza immediata per il partito, per Obama e per la memoria di Kennedy che ne fu l'ispiratore: il possibile affossamento della riforma sanitaria.

E' vero che c'era un piano B. Portare subito alla Camera il pacchetto già approvato al Senato per poi far firmare il progetto in legge da Obama al più presto. Ma questo stratagemma, pragmatico e legale, è stato bocciato poche ore dopo l'elezione da da un influente senatore democratico, Jim Webb, della Virginia: "E' vitale che restauriamo il rispetto degli americani nel nostro sistema di governo e nei nostri leader. Per questo ritengo che sia corretto e prudente sospendere ogni voto sulla legge di riforma sanitaria prima che il senatore-eletto Brown assuma il suo posto al Senato" ha detto Webb freddando gli strateghi di Obama.

Il baricentro del paese è ancorato al centrodestra. E' chiaro dunque che il baricentro politico del Paese resta saldamente ancorato al centro/centro destra. E' chiaro che la leadership del Congresso, sbilanciata a sinistra ha perso la sintonia con il Paese. Già perché il voto del Massachusetts è diventato come si è detto un voto nazionale. E gli strateghi politici dovranno reimpostare le campagne elettorali per novembre. Cosa farà Obama a questo punto? David Axlerod e i suoi consiglieri più vicini sono già al lavoro. Si rendono conto che a un anno dall'insediamento molte cose non hanno funzionato: il Paese resta afflitto dalla disoccupazione, in politica estera non è stato ancora raggiunto un obiettivo importante, e in politica interna l'intera agenda promessa un anno fa ai piedi del Campidoglio sembra vacillare. La risposta l'ha data lo stesso portavoce del Presidente: ci si rifugerà nel populismo. E comincerà a guardare oltre al prossimo novembre e già alle presidenziali del 2012, per evitare che la memoria della disfatta di ieri nel Massachusetts si trascini fino alla conferma per un secondo mandato.

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20 gennaio 2010

 

 

 

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E il Presidente ne esce con le ossa rotte: queste elezioni erano diventate un vero e proprio referendum su di lui e sul primo anniversario del suo insediamento alla Casa Bianca che si festeggia proprio oggi, 20 gennaio. E mai anniversario di insediamento alla Presidenza è stato più amaro. L'impatto, anche sul piano simbolico, è devastante su più fronti.

La riforma sanitaria. C'è intanto per i democratici la perdita della maggioranza blindata di sessanta seggi al Senato. E questo mette in crisi l'agenda politica della Casa Bianca, ma con una conseguenza immediata per il partito, per Obama e per la memoria di Kennedy che ne fu l'ispiratore: il possibile affossamento della riforma sanitaria.

E' vero che c'era un piano B. Portare subito alla Camera il pacchetto già approvato al Senato per poi far firmare il progetto in legge da Obama al più presto. Ma questo stratagemma, pragmatico e legale, è stato bocciato poche ore dopo l'elezione da da un influente senatore democratico, Jim Webb, della Virginia: "E' vitale che restauriamo il rispetto degli americani nel nostro sistema di governo e nei nostri leader. Per questo ritengo che sia corretto e prudente sospendere ogni voto sulla legge di riforma sanitaria prima che il senatore-eletto Brown assuma il suo posto al Senato" ha detto Webb freddando gli strateghi di Obama.

Il baricentro del paese è ancorato al centrodestra. E' chiaro dunque che il baricentro politico del Paese resta saldamente ancorato al centro/centro destra. E' chiaro che la leadership del Congresso, sbilanciata a sinistra ha perso la sintonia con il Paese. Già perché il voto del Massachusetts è diventato come si è detto un voto nazionale. E gli strateghi politici dovranno reimpostare le campagne elettorali per novembre. Cosa farà Obama a questo punto? David Axlerod e i suoi consiglieri più vicini sono già al lavoro. Si rendono conto che a un anno dall'insediamento molte cose non hanno funzionato: il Paese resta afflitto dalla disoccupazione, in politica estera non è stato ancora raggiunto un obiettivo importante, e in politica interna l'intera agenda promessa un anno fa ai piedi del Campidoglio sembra vacillare. La risposta l'ha data lo stesso portavoce del Presidente: ci si rifugerà nel populismo. E comincerà a guardare oltre al prossimo novembre e già alle presidenziali del 2012, per evitare che la memoria della disfatta di ieri nel Massachusetts si trascini fino alla conferma per un secondo mandato.

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La strategia del dopo voto dei democratici: le 4 sfide da non perdere

dal nostro corrispondente Mario Platero

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20 gennaio 2010

"Dai nostri archivi"

Piano B per salvare la nuova sanità americana

Usa, in Massachusetts vince il repubblicano Brown

Una vittoria storica, una sfida politica

Usa, in Massachusets testa a testa tra Democratici e Repubblicani

La riforma del dottor White House

NEW YORK – "It's the Economy, Stupid", motto efficace ma demodé. Oggi vale di più: "It's the Health Care Reform, Stupid". "E' la riforma sanitaria, stupido". Il prezzo per i democratici e per Obama per questa riforma, che per giunta potrebbe a questo punto non passare più, è stato altissimo. E adesso, dopo lo spavento del Massachusetts, dopo la vittoria chiarissima di Scott Brown, Rookie sconosciuto, non c'e' dubbio che i democratici andranno avanti per ordine sparso. Si deve cambiare. E lo si deve fare rapidamente, perché novembre e le elezioni di metà mandato generali, in termini politici sono dietro l'angolo. La dichiarazione del senatore Webb, democratico della Virginia, che chiede di non usare strategemmi elettorali per la riforma sanitaria, parla chiaro: il cosiddetto piano B per passare la riforma prima dell'arrivo di Brown, è bocciata. "Dalla campagna della Coakley abbiamo imparato una lezione importante – ha detto Robert Menendez, senatore democratico del New Jersey, il presidente del comitato senatoriale per le elezioni –" anche negli stati blu, che consideriamo nostri e dove abbiamo, come in Massachussetts un vantaggio di 3 a 1, dobbiamo aspettarci un elettorato volatile, duro, che non può consentirci di abbassare la guardia o di non essere aggressivi".

E proprio guardando a novembre, emergono quattro sfide chiave per i democratici a) le difficoltà per il partito a fronte della crisi economica sono enormi, molto più grandi di quello che ci si poteva aspettare; b) il prezzo pagato per la riforma sanitaria si sta rivelando altissimo e dunque prima si chiude quella partita, nel bene o nel male, meglio è; c) il presidente non sembra più avere quel travolgente effetto traino che aveva fino all'estate, e dunque lui stesso dovrà cambiare il suo posizionamento; d) da un punto di vista di più ampio respiro si conferma un quadro di fondo di cui vi abbiamo già parlato più volte su queste pagine: se l'America ha votato Obama, il baricentro politico del Paese resta saldamente ancorato al centro destra. La forte svolta a sinistra impressa dalla leadership del Congresso, dal presidente della Camera Nancy Pelosi e dal capo della maggioranza al Senato Harry Reid non è in sintonia con il "mainstream America", con la grande classe media americana.

Sia David Axelrod, il grande stratega di Obama che il portavoce Robert Gibbs, hanno comunque già offerto un quadro di contrattacco per novembre da parte della Casa Bianca. Vi sarà una piccola virata a destra, con l'abbandono, almeno nel breve termine di alcuni dei progetti più controversi: quello per l'immigrazione, per l'introduzione di un modello anti-inquiinamento per lo scambio di diritti C02, e vi sarà un attacco fortissimo al problema del disavanzo pubblico, con accuse dirette ad ambo i partiti. Per questo tema in particolare c'è già il primo appuntamento, il discorso sullo stato dell'Unione del 27 gennaio e la presentazione formale del bilancio del 2 febbraio. In quell'occasione Obama introdurrà misure di forte austerità che colpiranno gli interessi di molti politici di ambo i partiti. E perseguirà un duplice obiettivo: il primo, smentire chi accusa la sua amministrazione di essere favorevole al "Big Government" e di essere "dipendente" dalla leadership del Congresso.

Il secondo, identificarsi con le frustrazioni dell'opinione pubblica per combatterle al fianco dei cittadini, secondo il più classico dei modelli di populismo. Un esercizio retorico questo già in pieno svolgimento. Dopo l'annuncio della tassa sulle banche e dopo le parole durissime che Obama ha usato contro gli istituti di credito accusandoli di "irresponsabilità", di "avidità" e di egoismo :"Quando hanno avuto bisogno dell'aiuto degli americani non hanno esitato a chiederlo - e a ottenerlo - ora che dovrebbero essere loro ad aiutare gli americani rifiutano di farlo e si distribuiscono bonus enormi…". E' stato Gibbs a spiegare la filosofia dietro la strategia populista, che dalle banche, ha detto lui stesso, si estenderà a tutto campo. "Un tema chiave del 2010 sarà quello di chiedere agli elettori se i rappresentanti che hanno a Washington sono favorevoli alla protezione degli abusi delle grandi banche, di quelli delle grandi compagnie petrolifere o di quelli delle grandi compagnie di assicurazione che aumentano arbitrariamente il costo delle polizze o se invece sceglieranno di essere dalla parte degli elettori e dei cittadini…" ha detto ieri Gibbs affrontando proprio la questione delle sfide per i democratici in questo momento politico.

Axelrod ha invece chiarito che si farà di tutto per evitare che le elezioni di novembre diventino un referendum, sull'operato del Presidente . Obiettivo non facile visto che già nel Massachussetts Obama si è trovato nel centro del ciclone politico che ha improvvisamento portato in vantaggio Brown. Ma Axelrod spiega che l'obiettivo per Obama non è soltanto quel che succederà a novembre, ma quel che potrà succedere nel novembre del 2012 per le presidenziali. Per questo, dice, non si impazzirà dietro ogni singolo seggio a rischio :"Sappiamo che perderemo dei seggi, bene, che vadano perduti, perché l'importante sarà mantenere la maggioranza e mantenere intatto il nostro orgoglio politico". E ricorda sornione, che, in circostanze simili anche Ronald Reagan si trovò in enormi difficoltà alle elezioni di metà mandato del 1982…"Tenne duro fino in fondo…subì gli attacchi e poi nel 1984 vinse con una vittoria travolgente il secondo mandato".

20 gennaio 2010

 

 

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